L’effimero dei quotidiani prende forma tridimensionale: irriverente, umoristico, Damiàn Ortega, al Barbican Center, re-interpreta 30 giorni di carta (dal 29 agosto al 27 Settembre 2010), trasformando giorno dopo giorno pagine di cronaca, grafici e pubblicità in sculture e installazioni.
La mostra, il cui titolo è una dichiarazione d’indipendenza di pensiero, vede l’ex-vignettista satirico messicano tornare dopo quasi 20 anni a cimentarsi di nuovo con i giornali: egli decostruisce e indaga il contenuto, il design e la funzione dei quotidiani intraprendendo così, non solo una critica degli eventi, ma anche degli stessi mezzi d’informazione.
La riflessione e comprensione della realtà di Ortega, formatosi sotto Gabriel Orozco, passa attraveso un’analisi fisica e viscerale. Egli infatti letteralmente apre, espande ed esplode gli oggetti come dimostra la sua opera più acclamata Cosmic Thing (2002). Le componenti degli oggetti diventano particelle, atomi erranti nello spazio spogliati di ogni abbellimento pubblicitario. La decostruzione è una metamorfosi che rivela un nuovo lato degli oggetti, crea un nuovo contesto e una nuova realtà, destabilizzando convenzioni e idee prestabilite. Nel visitatore nasce una nuova conoscenza e, a mio avviso, anche una nuova coscienza.
Il giornale con la sua struttura fisica strettamente codificata, come “espansione” del mondo, è un oggetto che allo stesso tempo analizza ed è da analizzare. Per l’artista messicano, il quotidiano è esso stesso una scultura. Tutto diventa concetto, metalinguaggio e oggetto di riflessione.
In una delle prime opere in mostra, Immigrant Song (30 Agosto 2010), un grafico illustrante il numero di clandestini presenti negli Stati Uniti si trasforma in un muro a zig-zag di 2 metri per 7. E’ un richiamo al contestato muro che separa gli Stati Uniti dal Messico: uno dei tanti muri che separando fisicamente due popoli nega il diritto della ricerca della felicità.
Qui Damiàn Ortega, come l’artista germanica-venezuelana Gego, gioca con i concetti di tridimensione e bidimensione, portando al limite la contrapposizione tra realtà e rappresentazione, tra disegno e oggetto. Si apre così una nuova porta sul mondo della creazione dove gli elementi grafici, come la linea, raggiungono una indipendenza assoluta regalando una infinita libertà alle associazioni mentali.
Nell’opera Architecture without architects (5 Settembre), sempre alla Curve Gallery, non solo ribadisce il labile confine tra immaginazione e realtà, ma eleva anche il vuoto a elemento costitutivo, echeggiando così Helio Oiticica del movimento neo-concretista brasiliano. Riprendendo una foto illustrante una casa parzialmente crollata a seguito del terremoto neozelandese, Ortega costruisce una assonometria tridimensionale. Tre piani di una abitazione complete di mobili e finestre, ma mancanti dell’essenziale: le pareti. Così gli oggetti isolati e sospesi nel vuoto ci rammentano silenziosamente della mancanza di alloggi popolari, delle catastrofi ambientali e delle anonime vicende umane che sono a questi problemi collegati.
E il fragile equilibrio tra uomo e natura ricompare ancora con le opere Ulysses Way (31 Agosto), British Petrol: Dirty Martini ( 4 Settembre), Greed or Graft (29 Agosto).
Così le storie di molti si tramutano nelle penne dei giornalisti in bytes, parole, concetti; Damiàn le riporta nel mondo fisico come sculture tridimensionali e poi ancora ritornano con in critici a essere creature bidimensionali: consumismo, problemi sociali, solitudini di popoli diventano una riflessione metalinguistica e opere d’arte. Nel mondo della banalizzazione e dell’infotainment questo è un alto atto di forza, una protesta lucida e ingegnosa.
Livia Dubon Bohlig
(Foto in homepage: Damiàn Ortega, “Waves IN (20 September)”, 2010. Installazione site specific. Courtesy Barbican Art Gallery; © Photo: Eliot Wyman)
Tag:Installazioni, Scultura
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