Quando è buio si sta in casa | Massimiliano Pelletti
BTFGallery, dal 2 al 27 Aprile (http://www.btfgallery.com)
Memento mori: dicotomia tra il singolo e la legge universale.
di Marco Aion Mangani
Postulato: tutta l’arte opera sul piano simbolico.
Oggetto e risultato della Creazione è quell’unico livello della realtà in cui non è più possibile separazione alcuna.
Qui ciò che è dato come origine (dato da simbolizzare) è al contempo anche il risultato finale (simbolo).
I due termini (simbolo e simbolizzato) dialogano tra loro in un’osmosi continuativa in cui quello che è, ossia la dimostrazione tangibile e simboleggiante, è al contempo anche la sua negazione (l’origine ri-definita e simbolizzata).
Questo tipo di realtà è diverso e qualitativamente superiore a quello inferiore, materialistico – funzionale, comunemente inteso.
È superiore poiché illimitato.
È necessaria materia degli artisti maturare il coraggio.
Poiché scegliere di non potere, seppure lascito di un principio di volontà, fa paura.
Ove cessa il controllo finisce l’arbitrio delle possibilità funzionali, lì dove “controllo” è retaggio pedagogico dell’economia moderna.
L’uomo nel suo processo evolutivo ha sempre maggiormente stabilito confini: tra sé e le cose del mondo, la natura, Dio…finanche i pensieri di un certo tipo, le emozioni.
Tutto è altro.
Perché?
Perché è così che la cosa diventa socialmente reale e, in ultima istanza, funzionale.
Qualsiasi cosa si definisca si dà oggettivamente al reale e soggettivamente all’immaginario; valevole quindi della possibilità (o meno) di essere posseduta, controllata.
In che senso è immaginaria?
Nella sua definizione stessa, in quel preciso momento della separazione in cui il disgiunto diviene altro.
L’immaginario è quanto esterno, quanto alieno, non conosciuto, nel senso in cui è diverso da chi determina: è l’alterità assoluta, la cesura.
Niente di strano, dunque, nel pensare a quanto sforzo l’uomo abbia e stia dedicando al processo di definizione.
Esiste, in qualche maniera, una stretta connessione tra determinare e negare.
Chi separa, può essere libero di decidere cosa volere e, se del caso, di dichiarare la propria non appartenenza al dato stabilito, confinandolo nell’orgia dell’immaginario.
E’ un’operazione dedita all’acquisizione di un unico potere: quello del controllo.
Per questo è conveniente, perché, fino a prova contraria questo è ciò che fa chi possiede, chi determina le qualità del possibile referente (e quindi, in ultima istanza, il suo grado di realtà oggettiva)
Le Tre Sedie di J. Kosuth raccontano di questo:
La definizione, estratta da un vocabolario, della parola “sedia”, la fotografia di una sedia e la sedia fisica sono, tutte assieme, un discorso sull’omologazione tautologica in cui i termini, diversamente formali, vantano del medesimo valore di realtà.
Più semplicemente è come dire, appunto, sono tre sedie.
Quello che però forse è ancora più intrigante è che con questo procedimento l’artista ha posto l’accento su un altro tipo discorso: in quale senso la sedia è reale?
Nell’unico modo possibile.
Nella sua, cioè, seppure eterogenea, definizione:
codice dialettico (oggettivazione sociale), rappresentazione formale (estrazione soggettiva) e presenza fisica (possibilità di possesso) che sia.
Ma arriviamo al dunque:
“Quando è buio si sta in casa” e il suo Autore.
Irriverente, sagace, caustica, crepuscolare ma anche profondamente “classica”, per quell’accezione, così intesa nel termine, che indica un alto controllo della resa formale di un’opera tale da “definire con essa generi e modelli”.
E ancora organica, fisiologica, razionale, visionaria…la poetica di Massimiliano Pelletti è tutto questo e anche di più.
Qualcosa di perennemente in fuga è presente in ognuno di questi lavori.
Un’entità di precipuo movimento anche quando, se interrotto, è abbandonato alla stasi di un nostalgico errare perduto (Broken Horse, 2009) o che dall’informe conduce alla consumazione stessa della forma (1522, 2010).
“Quando è buio si sta in casa” non è solo la mostra qui presentata, un insieme di oggetti , di cose, solo in parte sufficienti a raccontare della totale ed eclettica (soprattutto nei termini linguistico – formali) produzione dell’artista: la mirabile perizia tecnica delle sculture in marmo, riproduzioni di organi interni tanto fedeli da non temere il paragone con le cere di Zummo (Untitled, “heart”, 2010 o Untitled, “stomach”, 2010), fusioni in bronzo di vecchi cappelli di lana resi vacuo sembiante d’orrore (fuori) e demonico smile (dentro), come due inesorabili facce della stessa medaglia (David headless, 2011) o quel moderno Vaso di Pandora la cui entrata divelta, qui dunque dal contenuto già liberato, è piantonata da sedicenti mosche-sentinelle (Untitled “Hole”, 2011)
E ancora: giocattoli scampati al tempo e condannati a una nuova vita di perpetua consumazione (Allo “Esso è” viene data una rappresentazione allucinata, 2011) e una semplice busta di plastica attaccata ad un ventilatore, a memoria di quanto priva di sostanza siano le nostre paure (Babau, 2011).
Tutto quanto è detto qui dall’artista riconduce a quell’operazione di cesura e congiunzione che da un lato determina e dall’altro non vuole determinare.
Stabilisce una presa di posizione forte nei confronti della caducità.
Lì dove la presunta evoluzione civilizzante relega i morti al di fuori della cerchia sociale, in un illusorio tentativo di scardinarne le qualità terrificanti, Pelletti ha il coraggio di annullare questa separazione e lo fa con saggia ironia e una rara, sottile mestizia.
All’ombra della certezza di una fine ineluttabile, egli dice, la cosa più sensata da fare è “restare chiusi in casa”.
Ennesima provocazione o mero consiglio?
Non vale la pena decidere ora quale delle due possibilità.
A ognuno rimanga il compito, innanzitutto verso se stessi.
Qualcuno qui conosce bene cosa significa coraggio.
Per chi la pensa altrimenti non resterà che accontentarsi e godere solo di una bella mostra.
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