La terza tappa di questo viaggio, intrapreso all’interno di una sorta di labirinto a specchi, in cui si configurano le corrispondenze spazio-temporali di un perpetuo ‘sentire per immagini’, solleva un’interrogazione sul senso stesso di tali riflessi a distanza. Citare un’opera del passato: qual è la linea di confine tra imitazione e corrispondenza? Qual è il luogo in cui esse si contaminano, sino a diventare rispettivamente indefinibili?
Nel ciclo Hommage à Edward Hopper (che comprende opere realizzate tra il 1999 e il 2008) la coppia di artisti francesi Clark & Pougnaud[1] esprime la profonda ammirazione per il pittore americano e asserisce come il suo mondo possa essere anche il loro, con il dovuto scarto espressivo: l’immagine nello specchio, qui la loro opera, è un simulacro, vive in un’altra dimensione ed è momentaneo l’incontro con quella reale (in quanto ‘originale’), la visione di Hopper in questo caso[2].
Prima di affrontare direttamente questo dialogo vorrei però concedermi il lusso di vagare un po’ nel labirinto e scoprire un’altra fra le magie di questi specchi, che moltiplicano le possibilità dello sguardo e aguzzano la nostra percezione. Nell’opera Délia del 2004 (dal ciclo C’est la vie) Clark & Pougnaud immaginano una donna seduta in un caffè, in attesa, colta nell’attimo di un’espressione indefinibile, che non si può ricondurre alla malinconia, sebbene la sua posa ne sia un preciso rimando iconografico. Alle sue spalle uno scenario cittadino, popolato soltanto da bus-vagoni metropolitani: la veduta è un pretesto urbano per costruire il contrasto simbolico tra i toni grigio-azzurri dei palazzi e del cielo e l’accesa vivacità dei rossi e gialli dei giocosi mezzi (che diventano forti presenze), uno sfondo che diventa cassa di risonanza del sotteso conflitto tra malinconia e ironia, inscritto nel volto della giovane donna. Nel celeberrimo Caffè ad Arles, dipinto da Paul Gauguin nel 1888, è attiva la medesima dialettica tra lo sfondo e la figura in primo piano, con un’inversione di ruoli: l’intensità vitale è andata a sbattere contro le rosse pareti della sala e le presenze si fanno cupe e silenziose…che siano bus o persone, probabilmente poco conta.
L’affinità con il simbolismo di Gauguin, ma avremmo potuto anche prendere in considerazione alcuni interni di Edgar Degas o di Toulouse-Lautrec, ci fa riflettere su come proprio il desiderio d’intensificazione espressiva della fotografia nell’ambito dei recenti linguaggi digitali sia l’attuale corrispondente a quella che fu la spinta tardo ottocentesca verso il superamento della visione impressionista in pittura. In altre parole, il passaggio alla visione interiore della realtà oggettiva, che è qualcosa di più di una semplice inclinazione soggettiva dell’anima.
Ora davvero possiamo chiamare direttamente in causa Edward Hopper, per testimoniare a favore di Clark & Pougnaud e della loro scelta di contaminare la fotografia con la pittura.
Hopper, per rispondere a tutti coloro che chiedevano con insistenza ‘ragione della sua pittura’, ha coniato per la sua opera una locuzione concisa ma potente, definendola “una sorta di impressionismo modificato”, e dicendo di se stesso: “Io sono ancora un impressionista, penso”[3]. Lasciando sempre spazio a un margine di dubbio, com’era nella sua natura, refrattaria alle definizioni perentorie. Un impressionista perché la natura e il mondo esterno sono l’unica via su cui incamminarsi per lui, per non cadere nel rischio dell’astrazione autoreferenziale di molta arte del suo tempo[4] ma “modificato” poiché ciò che conta è la visione interiore dell’artista, in quanto è imprescindibile. In una delle rare interviste rilasciate Hopper, ormai anziano, dichiara che “L’opera è l’uomo. Una cosa non spunta dal nulla”.
Da qui le sue immagini: un realismo che suscita inquietudine, in cui ogni elemento è selezionato con cura per costruire il quadro di una percezione assolutamente unica del mondo ma non per questo surreale o visionaria. Clark & Pougnaud gli rendono omaggio proprio in nome di tali profonde ragioni interne alla sua opera. Per i due francesi la fotografia costituisce un ancoraggio al vero, la pittura è invece il mare aperto dell’immaginazione. Hopper è un pittore: solo in mare aperto, quindi. Deve lottare contro la forza stessa della sua pittura per non soccombere al fascino del pennello, per poter esprimere il silenzio e l’estrema solitudine dell’Essere nel mondo.
Nelle sue opere, infatti, lo sguardo è quasi sempre negato. Confrontiamo per esempio Room in New York dipinta da Hopper nel 1932 con Mimi e Francois realizzata da Clark & Pougnaud nel 2000, che ne è una precisa ricostruzione (anche se, come spesso accade in queste loro riprese, mancano i quadri alle pareti e vi è un’accentuazione della sensazione di vuoto dentro le stanze). I volti della coppia in Hopper sono stati sottoposti ad un processo di cancellazione, come fossero avvolti in una pellicola di opacità impenetrabile: tutto il resto è silenziosa atmosfera, segno dell’indifferenza del mondo e della natura. Mimi e Francois sono invece visi riconoscibili, immortalati dalla precisione fenomenica dello scatto fotografico.
Si colgono perciò le ragioni dello scarto tra il valore atmosferico della pittura realistica e l’iperrealismo della fotografia che accentua l’isolamento delle figure, che si fa così evidente proprio nella discrepanza percettiva tra la materia fotografica e quella pittorica: non hanno quindi bisogno di nascondere i visi per alludere al silenzio e alla loro estrema solitudine. Hopper invece lo fa, poiché le sue figure sono assediate dall’atmosfera e c’è l’urgenza di una fuga, per stabilire la distanza ed esprimere l’alterità insondabile dell’individuo rispetto alla luce naturale che lo avvolge; per lui si tratta ancora di un ‘fatto pittorico’, di una dimensione ‘altra’, mentre i due francesi giocano, senza veli, sull’ambiguità dell’immagine, costruita in bilico tra l’eccesso di realtà e la potenza della visione.
Vorrei chiudere con un confronto al limite, per comprendere quanto si tratti di “ispirazione” e non di “riproduzione”, come precisano nel loro sito Clark & Pougnaud[5] a proposito del loro omaggio al gigante del realismo americano. Etienne Draber (2000)[5] si rifà a una delle opere più ‘metafisiche’ (in senso para-dechirichiano) di Hopper: Dawn in Pennsylvania, del 1942. Tutto è molto preciso nella ‘cover’ dei francesi, tranne per un elemento: il carrello dei bagagli, muta presenza di vita, carica di un angoscioso presagio di assenza, si trasforma nell’indaffarato Etienne, che guarda impaziente l’orologio mentre aspetta il treno. Si ripete in questo confronto, in maniera ancor più radicale, lo scarto tra i due linguaggi, tra l’ironia esistenziale di Clark & Pougnaud e la sospensione metafisica di Hopper. Siamo forse riusciti a rispondere, almeno in parte, alla domanda sul significato di una corrispondenza.
Milena Cordioli
[1] Per una breve descrizione del metodo di lavoro dei due artisti rimando al mio articolo intitolato Staged Photography, pubblicato su «Artkernel | Arte e new media» il 26 giugno 2011. Specifico, in questa sede, la divisione dei ruoli: Clark è il fotografo, Pougnaud è la pittrice e scenografa, costruisce i sets in cui vengono collocati i modelli ritratti dal partner.
[2] La metafora del labirinto a specchi rimanda al problema ‘infinito’ del rapporto tra la realtà e la finzione, l’oggetto e la sua immagine, la figura e il simulacro: nel cuore di questa dialettica intendo affrontare il tema della relazione tra l’originale e la sua citazione, che contraddice il concetto di una semplice riproduzione. Questo aspetto diventa particolarmente interessante nel momento in cui si parla di fotografia (l’arte che riproduce il vero), pittura (invenzione della realtà) e linguaggi digitali (che mettono in campo il nuovo concetto di manipolazione).
[3] Intervista rilasciata a Katherine Kuh nel 1962, riportata in ELENA PONTIGGIA (a cura di), Edward Hopper. Scritti, interviste, testimonianze, Abscondita, Milano, 2000, p.65.
[4] Scrive sulla rivista «Reality» nel 1953: “Un punto debole di molta arte astratta è il tentativo di sostituire all’antica concezione basata sulla creazione di immagini le invenzioni intellettuali. La vita interiore di un uomo è un regno vasto e variegato e non riguarda solo dei piacevoli accordi di colore, forma e disegno.” Riportata in ELENA PONTIGGIA (a cura di), op.cit., p.17.
[5] Lo conferma inoltre la loro risposta, alla domanda sull’uso, ed il senso, della citazione, che ebbi modo di porre loro in un’intervista risalente ad agosto del 2010: “Se ci siamo supportati all’arte del passato, è perché ciò ci ha permesso di arrivare dentro noi stessi. L’emozione provata di fronte a opere di artisti del passato attiva in noi il bisogno di creare. Essa ci offre il coraggio di prendere il nostro turno e tentare di lasciare una traccia nella storia dell’arte.”
[6] Interessante notare come i titoli delle opere di Clark & Pougnaud corrispondano quasi sempre ai nomi dei personaggi fotografati, mentre per Hopper, anche quando la figura umana è presente, nel titolo troviamo piuttosto l’indicazione di un luogo, di un preciso momento temporale, di uno spazio come una stanza, una sala d’albergo, una camera.
BIBLIOGRAFIA:
Su Hopper esiste una bibliografia amplissima; per l’approfondimento della sua figura come uomo e artista rimando al testo fondamentale:
GAIL LEVIN, Edward Hopper. Biografia intima, Johan & Levi, Milano 2007
consiglio inoltre:
YVES BONNEFOY, Edward Hopper. La fotosintesi dell’essere, Abscondita, Milano 2009
ELENA PONTIGGIA (a cura di), E. Hopper. Scritti, interviste, testimonianze, Abscondita, Milano 2000
Per vedere il ciclo completo dell’Omaggio ad Hopper di Clark & Pougnaud segnalo il link:
http://www.clarkpougnaud.com/portfolio/portfolio_1.html
per l’opera e la poetica in generale:
Clark & Pougnaud. C’est la vie, catalogo mostra, Galleria Paci, Brescia 2009
Tag:Arte digitale, Fotografia, Pittura Digitale
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