Tra gli Eventi collaterali della Biennale di Venezia l’installazione video di Lech Majewski è un’esperienza assolutamente imperdibile: la perizia tecnica di questo imponente lavoro registico, curato in ogni dettaglio con maniacale precisione d’intenti, si riflette nella forza espressiva del risultato, che unisce alla sconcertante bellezza delle immagini la complessa profondità dei contenuti.
L’installazione video di Lech Majewski all’interno della piccola Chiesa veneziana di San Lio non è semplicemente un’opera da osservare, e non è nemmeno uno spazio fisico da esperire: essa piuttosto si offre come una visione epifanica, la rivelazione di una serie infinita e concatenata di significati nascosti nelle trame della nostra storia, che si ripete all’infinito e rimbalza dal passato al presente, sino al tempo assoluto dell’esperienza universale cristologica. Scrive il curatore Michael Francis Gibson: “Il soggetto rimane attuale ancor oggi: la tortura in nome della religione”.
Sono immagini di una bellezza sconcertante, volti che campeggiano in primo piano, vivi e presenti, sullo sfondo di un paesaggio dal forte valore simbolico, immaginato mezzo secolo fa dal genio pittorico di Bruegel il Vecchio.
L’opera di Majewski, che potremmo definire un’impresa, durata per oltre tre anni, è una sorta di alchemica trasformazione: dal celeberrimo quadro di Bruegel Andata al Calvario, dipinto nel 1564, si dipartono tutta una serie di divagazioni narrative e filosofiche sui significati e i tempi impliciti nella fissità pittorica della tela che, a differenza del video, non può che trattenere la vastità del tempo e degli accadimenti nella condensazione statica di un unico momento. Ma questa staticità è solo apparente, così accade che come un fiume, simile a quello che le figure in secondo piano costruiscono nello spazio pittorico, i personaggi iniziano il loro cammino nei video di Majewski, per assistere o soccombere al calvario.
Nei quattro tableaux vivants allestiti lungo il fianco sinistro della Chiesa, che accompagnano lo spettatore verso la visione dei due video posizionati ai lati dell’altare maggiore, in cui sono proiettati due spezzoni del film The Mill & the Cross, si assiste ad una specie di trasfigurazione del regista nel pittore, attraverso l’intensa interpretazione di Rutger Hauer, il famoso attore olandese dalla mimica facciale assai potente, un volto che si potrebbe definire già di per sé “espressionista”.
Un corto circuito complesso che richiama alla memoria alcuni ‘giochi speculari della visione’ della tradizione fiamminga cui Bruegel appartiene: Lech Majewski, quindi, come Bruegel, entrambi registi di una composizione molto articolata, in cui si stratificano diversi significati che ruotano intorno al tema della vita e della morte, attraverso l’esperienza drammatica della Crocifissione.
L’attore interpreta Bruegel, alle sue spalle il paesaggio nordico con il picco su cui campeggia il mulino, dapprima mentre riflette tenendo tra le mani un bucranio, la cui forma richiama quella della roccia sullo sfondo, a seguire una scena senza di lui, in cui passa la vita quotidiana sotto i nostri occhi, sottoforma di giovani donne che trasportano ceste. Nel terzo ‘quadro’ l’artista-regista ricompare ed ora sta dipingendo la sua scena, che scorre davanti ai suoi ed ai nostri occhi; infine il grande quadro è pronto: egli interviene nel campo visivo per gli ultimi ritocchi, un drappo rosso (colore che poi ritorna con satura e simbolica prepotenza nei video) da aggiustare, pochi ultimi dettagli da rifinire e poi egli dovrà lasciare la sua opera al mondo, ritirandosi nel silenzio della morte e del tempo. Un torpore da cui l’artista del presente lo può risvegliare, rispecchiandosi in lui, nella sua opera, riportandola in vita nella sua esperienza attuale.
Credo che il grande valore di quest’opera così complessa stia proprio in questo duplice livello che pone in atto un meccanismo che, lentamente, solo restando all’interno della Chiesa per un tempo prolungato, si fa chiaro: il senso di un destino universale e la “banalità del male” della violenza che da sempre l’uomo esercita sull’altro.
Majewski si rispecchia in Bruegel poiché le loro esperienze si sposano nel comune desiderio di raccontare l’uomo, alla ricerca del senso del suo destino e non importa che si tratti di Cristo o di un povero contadino anonimo, come si vede nei due video che mostrano il calvario rispettivamente dell’uno e dell’altro. Con questa sua impresa il regista ci sta offrendo molto più di un racconto a partire da un quadro: egli innesca, utilizzando la potenza travalicatrice dei mezzi digitali e virtuali, il meccanismo del rispecchiamento universale del nostro breve percorso esistenziale, attraverso un linguaggio di rara bellezza. Soffermandosi ad osservare le scene, ci si può emozionare di fronte ai volti che campeggiano nitidi ed assorti sui fondi brumosi; alla visione del mulino che gira mentre il tempo della vita si arresta nella cavità buia della caverna in cui è deposto il corpo del Cristo; al ciclo dei sentimenti e delle paure più ancestrali che come una ruota gira davanti ai nostri occhi.
Un lavoro in cui si stratificano molti significati, come scrive il curatore dell’esposizione Michael Francis Gibson: “Tre anni spesi tessendo un enorme tappeto digitale composto livello su livello da prospettiva, fenomeni atmosferici e persone”.
Milena Cordioli
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Sede: Chiesa di San Lio, Venezia
Date: 4 Giugno – 27 Novembre 2011
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