LULU
Una bambola di cera senza braccia e il titolo Lulu sbafato di rosso sul suo corpo finto e scivoloso. È la copertina del doppio album ‘teatrale’ di Lou Reed e dei Metallica, uscito il 31 ottobre scorso e realizzato praticamente in presa diretta, in cui torna, ancora una volta, il mito ossessivo della femme fatale, ispirato al dramma di Wedekind. Il manichino di cera risale ai primi del Novecento e fa parte della collezione del Werkbundarchiv Museum Der Dinge di Berlino, il ‘museo delle cose’, un’organizzazione autonoma che documenta la tradizione del Deutscher Werkbund, il movimento nato in Germania intorno alla riconsiderazione del design di Ludwig Mies van der Rohe e di Walter Gropius, all’interno di una vecchia fabbrica, nel quartiere di Kreuzberg. La foto è di Anton Corbijn, fotografo e regista, autore ‘in bianco nero’ di Control, il film del 2007 sulla vita di Ian Curtis, un ragazzo che avrebbe voluto essere “uno schermo serico di Warhol / appeso al muro / o il piccolo Joe o magari Lou / … o tutti i cuori infranti di New York …”.
Lulu divide il pubblico, fra quanti ritengono Lou Reed e i Metallica un’accoppiata ‘improbabile’ e rimpiangono l’indimenticabile teschio black on black che si vede in controluce su White light white heat, la copertina ideata da Andy Warhol e realizzata da Billy Name, e quanti bramavano di sentire ancora – in qualsiasi modo – il ragazzo di Long Island. Questi ultimi hanno già in memoria quel graffio di sangue impresso da Corbijn sul fondo bianco della copertina dell’album, una memoria che ritorna alla Factory e a Andy Warhol, che lo chiamava proprio così, Lulu, quando lui cantava spalle al pubblico con i Velvet Underground, vestito di nero e con gli occhiali da sole per proteggersi dalle luci crudeli, e usciva dall’ombra con la sua voce monocromatica e disincarnata, un po’ come il manichino senza braccia di Berlino.
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