Il postmoderno è legato all’esperienza di una rottura o di una crisi che coinvolge la dimensione artistica dove si tende a cancellare la differenza fra estetico e tecnico mentre in fotografia vi è una trasformazione creativa, una ripetizione differente di ciò che viene definito “moderno”.
Il termine “postmoderno” inizia a divenire un termine chiave nel dibattito artistico a partire dagli anni settanta nel momento in cui nell’arte e nella fotografia si fanno propri i concetti di “simulacro” proprio di Jean Boudrillard, e di “decostruzione” teorizzato da Jacques Derrida: si dà via libera alla citazione, dell’assemblaggio, dell’ipertesto, al nomadismo stilistico, alle nuove tecnologie e al virtuale. «[...] occorre precisare un’altra importante questione, di cui chiunque esamini l’arte dei nostri giorni dovrebbe tener conto: oggi, a differenza di quanto accadeva ancora una cinquantina d’anni fa, la pittura e la scultura d’avanguardia non sono più derelitte, ignorate, osteggiate. Anche se continua ad essere cibo artistico di una scarsa élite, anche se continua a non interessare il grosso pubblico (salvo che in pochissimi casi isolati divenuti ormai di dominio dei rotocalchi, come Picasso o Dalì), anche se è tuttora accusata di incomprensibilità, di ermetismo, di mala fede d parte di qualche critivco retrogrado, quat’arte, dico, possiede un vasto, vastissimo mercato; è innestata sopra un ampio e spesso potente giro di interessi, di contratti, di commerci [...]»[i] Sembra il prodromo di ciò che nel 1979 sancisce nell’arte fotografica l’epoca del postmoderno: la mostra Fabricated to be Photographed curata da Van Deren Coke al MoMA di San Francisco; oggi al Victoria&Albert Museum di Londra con la mostra Signs of a Struggle: Photography in the Wake of Postmodernism si cerca di delineare i punti cardine di un “movimento” che in fotografia abbraccia almeno tre decadi e fornisce un ricco terreno di indagine sulla natura stessa della rappresentazione. Tra i primi teorici del postmoderno troviamo Ihab Hassan «Dioniso e Cupido sono entrambi agenti di cambiamento [...] Qualcuno potrà dire che il cambiamento è violenza, e la violenza è continua sia sotto forma di Horror che di High Camp»[ii]. Questo concetto sembra facilmente applicabile all’opera fotografica degli ultimi 30 anni: si hanno fotografie che si riferiscono a loro stesse, ad altri media e testi, al concetto stesso di “rimediazione”, che perdono fluidità, dal punto di vista formale e concettuale. Succede in tutto l’ambiente artistico, non solo nella fotografia, assistiamo a ibridazioni di generi e a combinazioni che non sconfinano e non delineano più generi precisi, come quando nel 1961 Gillo Dorfles riconobbe nella società quattro generi artistici essenziali: «un genere d’arte svincolato da ogni impegno sociale, discendente dalle teorie dell’art pour l’art e incarnatosi nelle diverse forme dell’astrattismo geometrico, del cinetismo, dell’arte programmata e in genere nelle correnti antifigurative neo-concrete. Un genere d’arte intesa come “rispecchiamento” d’una realtà esistenziale, memore delle teorie marxiane, che ha dato vita ai diversi episodi di arte “impegnata” dal neorealismo ai diversi realismi sociali e che, dal punto di vista artistico, ha avuto scarsissima rilevanza [...] La pop art che segnavano una ripresa d’interesse per gli aspetti socio-politici della civiltà attraverso una ironizzazione demistificante della Società dei Consumi [...] Numerose correnti concettuali che rifiutano il consumismo [...]»[iii].
Il fulcro di questa estetica fotografica appare il citazionismo che, erede dell’arte concettuale degli anni settanta, si ripropone come esaurimento delle spinte utopiche delle avanguardie storiche, verso una trasformazione della creatività in forme già prodotte, dove il ready made duchampiano si trasforma in metalinguaggio. Prime fra tutti furono Barbara Kruger con le sue immagini-installazioni tratte da giornali di vari periodi intrise di slogan politici-filosofici, e Sherry Levine con il suo ready made culturale sulla rifotografatura di alcuni lavori di Walker Evans. Da ciò ne deriva parallelamente il “ri- appropriazionismo” come messa in discussione di immagini storicizzate e rielaborate concettualmente da fotografi come Richard Prince che nel suo progetto Cowboy (1989) ri-fotografa icone di pubblicità di sigarette statunitensi. Il Postmodernismo si rivolge a forme giocose perchè «se c’è una nozione cardine del postmoderno, questa sembra essere allora quella di Gioco, con tutti i nessi che essa ha con il desiderio, l’operazione priva di utilità estrinseca ma fine a se stessa»[iv] così le immagini di David Shrigley esprimono «una dimensione ironica, che gioca su un doppio registro, e che esclude qualsiasi armonia e composizione»[v].
L’arteficio della costruzione scenica in Gregory Crewdson si amplifica fino alla lavorazione maniacalmente iperdefinita dei light-box di Jeff Wall e dei lavori recenti di Anne Hardy in cui gli spazi si riempiono oniricamente di oggetti di uso quotidiano.Strettamente correlati all’arteficio, alla costruzione, nel 1995 il duo venuezelno/statunitense Aziz+Cucher mette in mostra dei nudi su fondo monocromo ma con ogni orifizio del volto occluso con una membrana di pelle creata con Photoshop. Di fatto i media danno un alto contributo data la grande estensione tecnologica: ne sono coscienti i lungometraggi estranianti di Matthew Barney e Vanessa Beecroff fino al giovane scozzese Calum Colvin per il quale la manipolazione del computer è stata una caratteristica fondamentale per lo sviluppo della propria narrazione creativa simbolica.
Sono ben chiari i lati oscuri dell’animo umano, l’esplorazione dei temi del vuoto, del nulla e del silenzio, nelle installazioni sulla memoria collettiva del progetto di Nancy Burson Focus on Peace in cui ha distribuito 30.000 cartoline e 7.000 poster intorno al World Trade Center in coincidenza con il primo anniversario dell’11 settembre. D’altro canto l’indagine sull’identità personale si accentua sempre di più con Anne Noggle che si autoanalizza modificando attraverso la chirurgia estetica il proprio corpo e nelle immagini di Clara Strand che studia, sviluppa e risolve all’interno di una sensibilità molto particolare e personale la memoria della propria infanza.
Dietro a tutta questa concettualizzazione si sono riaffermati nuovi rituali di feticizzazione e Kitsch, manierismi che non tendono a naufragare; la narrazione coerente e globale si polverizza assumendo l’aspetto di una stratificazione di significati frammentati in cui la perdita è quella del significato narrativo dalla stessa opera d’arte, e in questo caso della fotografia, che genera una pluralità di racconti possibili dove viene meno la misura del tempo.
Nell’affollata galleria narrativa Cindy Sherman sintetizza e incarna il fotografo postmoderno. Utilizza la citazione, l’artefatto degli allestimenti, gioca con ironia soprattutto sull’identità come nel ciclo A Play of Selves (1975). Antiforma, anarchia, silenzio, antitesi, dispersione, antinarrazione, schizofrenia, indeterminazione questa è l’affollata galleria del Postmoderno. Ma il tutto è ancora un’opera aperta.
[i] Gillo Dorfles, Ultime tendenze nell’arte d’oggi, Feltrinelli, Milano, 1985, p. 12.
[ii] Ihab Hassan, The Dismemberment of Orpheus. Toward a Postmodern Literature, University of Milwaukee Press, Madison 1971; Trad. it. parziale: Carravetta e Spedicato (a c. di), L’evanescenza della forma, Bompiani, Milano 1984, p. 39.
[iii] Gillo Dorfles, Ultime tendenze nell’arte d’oggi, Feltrinelli, Milano, 1985, pp. 175-176.
[iv] Ihab Hassan, La questione del postmoderno, in Carravetta e Spredicato (a c. di), Postmoderno e letteratura. Percorsi e visioni della critica in America, Bompiani, Milano 1984, p. 99.
[v] Remo Cesarini, Raccontare il postmoderno, Bollati Boringhieri, Torino 1997, p.125.
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